Intervista a Maurizio Martusciello
Maurizio Martusciello è senza ombra di dubbio uno dei maggiori esponenti del panorama italiano di musica sperimentale ed elettronica degli ultimi anni. Dai primi anni ’90 fino ad oggi ha dato vita ad una miriade di progetti solisti e di collaborazioni che gli sono valsi l’apprezzamento di pubblico e critica non solo nazionali.
Lo incontriamo nel suo quartier generale all’interno del centro sociale Brancaleone di Roma dove insieme al resto della sua Crew lavora ai suoi molteplici progetti.
La chiacchierata è stata estremamente piacevole ed interessante, come sempre quando si scambiano delle opinioni con una persona dalla cultura così vasta e approfondita come quella di Martux_M.
Ciao Maurizio, ti ringraziamo per dedicarci un po’ del tuo tempo e per non fartene perdere troppo andiamo subito al sodo. Vista l’ecletticità e la diversità delle tue proposte musicali io direi di partire dall’origine di tutto, cioè da come e quando ti sei avvicinato per la prima volta alla musica.
Il mio amore per la musica è nato molto presto: a 5 anni ho iniziato a suonare la batteria e crescendo mi sono appassionato sempre di più allo strumento. Da adolescente quello che mi affascinava era soprattutto il rock alla Deep Purple, Led Zeppelin e così ho iniziato a suonare con alcune band nella mia città, Napoli. A 16 anni ho deciso di darmi della fondamenta di tecnica e mi sono iscritto al liceo musicale dove ho studiato percussioni per 2 anni.
A 26 anni mi sono trasferito a Roma con l’intenzione di fare il musicista professionista visto che a Napoli nonostante i molti stimoli che la città offriva c’era una carenza di strutture tale da rendere difficile una vita come musicista.
Come sono andate le cose nella tua nuova città di adozione?
Per circa dieci anni ho suonato come batterista in tante band. Intanto mi ero appassionato di jazz ed avevo raggiunto un livello tale da poter suonare con gente come Danilo Rea, Paolo Fresu, Rita Marcotulli.
Quindi la tua prima evoluzione è stata quella di passare dal rock al jazz, come è proseguito il tuo percorso?
Intorno agli ’90 mi sono iniziato ad interessare di sperimentazione in generale.
L’uso dell’elettronica all’epoca era limitato, mi limitavo a prendere dei campioni e riutilizzarli.
In quegli anni ho partecipato a dei progetti di musica sperimentali come il duo Martusciello con mio cugino Elio con il quale registrammo per la Staalplaat, poi formammo gli Ossatura, gruppo di improvvisazione e ricerca elettroacustica.
All’epoca degli Ossatura hai avuto la possibilità di collaborare, tra gli altri, con gente del calibro di Tim Hodgkinson e Chris Cutler. Cosa ti è rimasto di quella esperienza?
Suonare con Tim Hodgkinson e Chris Cutler è stato molto importante per la mia formazione, per la mia crescita. Chris ha fatto con gli Ossatura un paio di concerti ed è stato il produttore di un nostro disco mentre Tim partecipò più che altro come special guest, suonava praticamente tutto, chitarra, corni, sax oggetti, qualcosa di stupefacente.
Comunque due persone di uno spessore artistico e culturale altissimo che hanno aiutato molto la mia crescita come musicista e non solo.
Cosa è successo per farti spostare dal jazz e dall’improvvisazione verso l’elettronica?
Ad un certo punto scoprii e mi appassionai ai Kraftwerk da una parte ed a Brian Eno dall’altra e quindi iniziai questo percorso di un’elettronica ambient, concettuale e sperimentale allo stesso tempo. Una delle prime uscite discografiche in questi ambienti è stato Unsetted Line del 2000, realizzato per l’etichetta francese Metamkine, che all’epoca era molto all’avanguardia con delle releases anche a nome di Luc Ferrari, Jim O’Rourke, Michel Chion etc. Si trattava di una suite unica di circa 20 minuti di musica concreta che ha riscosso un buon successo a livello di critica venendo anche premiata al concorso internazionale di musica elettronica di San Paolo in Brasile.
C’è da dire che già da qualche anno avevo iniziato anche una collaborazione con Filippo Paolini, aka Dj Okapi, a nome Metaxu.
A proposito di questo progetto ho letto qualcosa in rete che mi ha incuriosito molto sull’origine del nome che avete scelto, ci racconteresti qualcosa a riguardo?
All’epoca stavo leggendo il Simposio di Platone e rimasi molto colpito dalla figura di questo demone, Metaxu appunto, il demone della via di mezzo, della voluttà, sempre assetato di conoscenza, che più sa e più si accorge di non sapere e quindi è nella condizione di continua ricerca.
Il vostro secondo lavoro si intitolava Rumors Of War. Riascoltandolo in questi giorni riflettevo su come sia attuale un lavoro del genere, sia perché un concept album sulla guerra e oggi più che mai attuale, sia per le sonorità che voi definivate “orchestral glitch music”.
Quando ci siamo messi a lavorare su questo album era in corso la seconda guerra del golfo con la conseguente, grande, concentrazione mediatica.
La riflessione che ci veniva di fare era su come l’uomo, dimenticando gli effetti di tutte le guerre del passato, continuasse a risolvere i propri conflitti con la violenza, la forza.
Nonostante i molteplici passi in avanti fatti in tutti i campi, non per ultimo quello della tecnologia, l’uomo è come se fosse rimasto allo stadio primitivo. Votato alla sopraffazione.
E così abbiamo deciso di dare ad ogni composizione, come titolo, il nome di una città colpita da una guerra, si va dalle Sarajevo e Belgrado della guerra dei Balcani all’11 settembre di New York passando per l’Alicante della Guerra Civile Spagnola.
Per quanto riguarda la produzione della tua musica, con che strumenti lavori, software, macchine?
Il primo software che ho utilizzato è stato Sound Forge in fase di editing e poi come multi traccia Vegas. All’epoca tutto girava sul mio pc visto che non mi potevo permettere altro.
Così sono andato avanti per molto tempo, poi, casualmente, degli amici mi fecero conoscere Ableton Live ed iniziai ad utilizzarlo soprattutto come campionatore visto che è molto facile da usare.
Poco prima avevo speso un sacco di soldi per un campionatore S5000 dell’Akai, ma poi mi resi conto che con Live riuscivo a fare praticamente le stesse cose con molte meno difficoltà.
La cosa che più mi interessava era la concezione per il live con la possibilità di modificare i campioni in tempo reale.
Adesso per favore dicci qualcosa sul tuo ultimo progetto In Beat Ween Zone (n.d.r. between è la traduzione della parola greca metaxù).
In Beat Ween Zone nasce anche come forma di collaborazione con il Branca nelle serate “Branca Mon Amour” e come volontà di rapportarsi con un mondo musicale che non conoscevo molto.
Il mio amico antropologo Massimo Canevacci mi ha fatto notare che in tutte le culture native il rapporto con il beat ha qualcosa a che fare con il trascendente, il mistico. Qualsiasi rito è accompagnato da una scansione ritmica pulsata e questo lo trovo molto interessante.
Queste riflessioni mi hanno portato a rivalutare quello che avevo sempre considerato, in modo forse snobbistico, banale, di puro divertimento, cioè il mondo della dance.
Negli anni ’90 gli Undeground Resistence, padrini della Techno Detroit, definivano le loro serata da ballo “Assaults”, c’era in loro una forte convinzione nella valenza politica della musica da ballo. Ti riferisci a qualcosa di simile?
Dici bene. La musica può essere capace di trasmettere direttamente nel corpo un’energia.
Nelle interviste a Jeff Mills traspariva una forte coscienza politica. Indagando in questa estetica mi sono reso conto che può anche essere così. Ho deciso di affrontare questa piccola sfida intraprendendo un progetto dance supportato anche dal video convinto del fatto che il fruitore ha a disposizione più chiavi di lettura, puoi solo ballare oppure raccogliere gli stimoli alla parte cosciente e immaginativa e pensare anche a delle cose più complesse facendoti guidare dalla ripetitività dei beat in una fase estatica e ipnotica.
D’altra parte essendo appassionato di musica nera volevo riproporre quel lato sensuale ed erotico di certe sonorità tonde come il corpo di una bella donna.
A cosa faresti ricondurre questo tuo eccletismo?
L’eclettismo dipende dalla profonda curiosità. Mi sono sempre appassionata a varie sonorità.
Se intraprendo un percorso ed in qualche modo ritengo di averlo concluso voglio vedere dell’altro ed è cosi che ho indagato dal percussivismo sperimentale al glitch fino al 4/4.
In passato avevi già lavorato con l’interazione di suoni ed immagini, in particolare mi sembrava molto interessante il progetto X-Scape.
Nello specifico si tratta di 7 lavori raccolti in un dvd, nel quale la parte di video design è opera di Mattia Casalegno.
X-Scape parte come un installazione di arte contemporanea. Il suono non è più concepito come colonna sonora, suono e video si muovono insieme in un percorso sperimentale finalizzato a stimolare questi altri canali del sentire. Escape come fuga e incrocio con la possibilità di incontrare l’altro nell’altrove.
Il lavoro è stato anche presentato nel corso del Festival Digital Life dell’anno scorso al Macro di Roma.
Come giudichi l’attuale scena elettronica sperimentale italiana?
Mi sembra che sia un periodo molto difficile per chi vuole sperimentare in campo musicale.
In questo momento riesce ha sopravvivere solo chi ha un po’di storia dietro. C’è un deserto culturale da far paura, mancano le prospettive, nessuno è più invogliato a rischiare nel fare, non ci sono le economie a supporto della sperimentazione.
Il problema sta anche nella mancanza di addetti culturali coraggiosi, si fanno prodotti per la gente omologati, ti si chiede solo di fare cose che funzionano su grande scala.
Il gusto si è modificato, il berlusconismo ha appiattito e modificato il gusto, la gente non è più curiosa, c’è una grande pigrizia intellettuale.
Pensi che questo sia un discorso che funziona solo per l’Italia o, per quello che conosci, è così anche negli altri paesi?
L’Italia è stato il laboratorio a livello europeo di questo depauperamento culturale, penso tutto sia iniziato negli anni ’90, ma mi sembra che si inizi ad investire meno sulla cultura anche in altri posti. La Francia investe ancora tanto ma si va sempre di più sul commerciale.
Anche in giro per il mondo per chi fa ricerca musicale c’è il rischio di rinchiudersi in piccolissime nicchie.
Ci siamo conosciuti in un ambiente diciamo didattico, nel senso che da un po’ di tempo ti stai dedicando anche all’insegnamento. Come sei entrato in contatto con questo mondo accademico della musica?
Non utilizzerei il termine insegnamento. Io voglio trasmettere il mio entusiasmo a chiunque sia disposto ad interagire. Nelle relazioni che si creano in questi contesti quello che cerco è l’interscambio, io so una cosa tu un'altra e cresciamo insieme. E’ una questione di esperienze.
Tutto è iniziato con l’università della musica, poi lo IED (Istituto Europeo di Design) e poi il conservatorio di Santa Cecilia.
Sono state tutte esperienze che mi hanno arricchito e mi arricchiscono molto tanto che nella mia attuale Crew ci sono dei ragazzi che avevano partecipato a dei miei seminari.
Parlaci di qualcosa di musicalmente nuovo che ti ha affascinato negli ultimi tempi.
Durante un viaggio in Brasile mi trovavo a Salvador De Bahia, la città con la più alta percentuale di africani dello Stato, e sono capitato in una di queste feste di strada a base di
favela funky, fenomeno che io prima non conoscevo. Sono rimasto molto colpito dall’approccio di questi dj delle favelas, molto sensuale, sinuoso, tribale. Osservare come gente tipo Dj Pittbull o Dj Marlboro trascinavano migliaia di persone in una sorta di rito collettivo mi ha molto affascinato.
Parliamo infine di quello che è fino adesso il tuo ultimo lavoro discografico:”About A Silent Way”. Come mai nel momento di scegliere un lavoro di Miles Davis da rivisitare hai scelto proprio “In A Silent Way” che coincide con il momento di cambio di traiettoria da parte di Miles?
Sono ritornato al jazz dopo tanti anni, con un altro background e non è stata una scelta casuale.
Ad un certo punto della mia vita e della mia carriera mi sono chiesto chi ero veramente, batterista jazz, sperimentatore elettronico, produttore techno….
Studiando Miles e leggendo la sua biografia rimasi colpito da una frase: ”…devo continuamente cambiare, è una maledizione…
Prima di fare uscire “In A Silent Way” Miles era al massimo del successo ma va dai produttori della Columbia e gli dice di voler cambiare, propone qualcosa di completamente nuovo, un disco che nonostante le immediate stroncature si tramutò in un punto di riferimento per miriadi di musicisti in tutto il mondo.
Cos’è quindi che ti ha particolarmente colpito di quel disco dal punto di vista prettamente musicale?
In quel lavoro si consolida il passaggio dalla scrittura fatta di cambi armonici a quella modale. Si può rimanere per 15 minuti su una sola ipnotica nota, come in un pezzo techno fatto di piattino e cassa in battere. Così abbiamo deciso di reinterpretare quelle composizioni come se oggi Miles le suonasse insieme a Jeff Mills o a Carl Craig. Mi sembrava una cosa alla portata di mano, Miles ha fatto queste tracce? Bene, suonale, mi sono detto suonale.
Consideri questa esperienza come riuscita, completa e quindi chiusa, o pensi di dargli un seguito?
Le idee che stanno alla base di questo progetto sono tutt’ora vive e continuano ad interessarmi tanto che stiamo già pensando ad un nuovo lavoro su queste coordinate.
Bene Maurizio, è stato un piacere e ti ringraziamo per la tua disponibilità. Buon lavoro.
Grazie a voi ed a presto.
X-Scape from Martux_M on Vimeo.